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Ricordo dello scrittore Filippo Betto |
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RICORDANDO FILIPPO BETTO
di Fulvio Panzeri
Se ne è andato giovane, come il suo amico e maestro Pier Vittorio Tondelli. E' morto lo scorso aprile, a soli 43 anni, per un infarto, lo scrittore Filippo Betto, più volte ospite di iniziative organizzate dal Centro Studi Tondelli di Correggio.
Era nato a Gorizia, nel 1966. Si era laureato in Lettere e Filosofia all'Università di Bologna ed era stato tenuto a battesimo nella scrittura, da Tondelli, che gli aveva pubblicato un'intervista su uno dei primi numeri di Panta.
Dopo la morte di Tondelli, vissuta drammaticamente da Filippo, in una difficile elaborazione del lutto, aveva pubblicato vari interventi sullo scrittore in "Panta" e nell'antologia Tondelli e la musica". Ha scritto anche testi teatrali e ha vinto, nel 1966, il premio Tondelli per un'opera teatrale inedita, "Armagedon", portata poi in scena con la regia di Antonio Sixty.
RACCONTI SIMBOLO PER GLI ANNI OTTANTA
Ha esordito con i racconti Certi giorni sono migliori di altri giorni (Marcos y Marcos, 1997), in cui è presente un senso afro-italiano" di un disfacimento non commiserato, ma fieramente cercato come ferita. E' questo aspetto noir, ma di un nero-notte-mostro quotidiano che afferra innanzitutto la coscienza ad interessare nella tua scrittura. Sono racconti sui crimini del cuore, una sorta di dettagliati cerimoniali che hanno molti aspetti arcaici e tribali e che arrivano all'immagine estrema del corpo/cadavere esposto o corrotto sopra un'altare pagano In tempi in cui alla scrittura si è richiesto , oltre che consolazione, solo un liscio impatto gergale giovanilistico, questi racconti di Betto hanno riaffermato che l'anima si può raccontare, come una sfida che dalle cerimonie sadomaso arriva all'eco della gloria. Come avviene nei racconti migliori di questio libro, in cui troviamo una gloria che passa tra le lame dei coltelli, sui topi e nei corpi murati a sarcofago.
La ricerca stilistica volge ad un parlato, non certo di maniera, ma abilissimamente costruito da Betto che in un'intervista aveva detto: "Questa profonda necessità di ricreare un parlato deriva dal desiderio di interpretare i personaggi, il loro ronzio mentale, i percorsi anche così funambolici, anche apparentemente inafferabbili che poi attraversano tutti. In questo devo dire che l'esperienza di vita e di letteratura hanno uguale importanza per me. Tondelli è stato fondamentale in questo senso, per quel ricorrere continuamente al suono delle parole. C'è in tutto quello che ha scritto, anche in libri molto diversi tra loro, una forte attenzione al dialogo. Non c'è la pagina da una parte, poi una barriera di cristallo e l'autore dietro. C'è una voce che sta parlando, che il lettore segue, intuendola come la sua voce".
L'INQUIETUDINE DEL VIAGGIATORE
Bisogna aspettare il 2000 per il nuovo romanzo, Convulsioni, che viene pubblicato da Bompiani. Si tratta di una storia dura che mette in scena il dolore dell'esistenza e della ricerca di sè, nell'impossibilità di avere rapporti sereni con le persone che stanno accanto. Ed è anche la storia di una ricerca dentro il male oscuro, dentro la depressione più nera, che regala giorni di lucidità, ma poi fa ripiombare nuovamente in quel grumo nero dell'anima che cerca di liberarsi invano. A raccontare il suo lungo viaggio verso il nulla è una donna di trent'anni, friulana, che vive ambiguamente due passioni dalle quali continuamente si ritrae. Non riesce a prendere una decisione rispetto alla sua capacità di vivere intensamente un rapporto. Così alterna il suo interesse tra un pittore e uno scrittore, entrambi intuiti in una sorta di odio-amore che non riesce a dargli la serenità. Anche la sua vita è ambivalente: tra un soggiorno nel Friuli natale che detesta e l'anonimato di una Roma inespressiva. Così decide di fare quello che sarà un ultimo viaggio risolutore, alla ricerca di se stessa, un viaggio che la condurrà in giro per l'Europa, fino ad un ultimo rave party irlandese.
E' straordinario questo "ritratto di donna" che Filippo Betto ci presenta: una creatura debole, fragilissima, preda delle sue ossessioni e delle proprie incertezze. E' una donna di cui è difficile immaginare le sembianze. Non sappiamo se sia bella o brutta, perché all'autore interessa mettere a nudo soprattutto la sua anima e dare espressione alla sua voce più profonda, che sembra uscire da un carcere ordinario e quotidiano, invocando clemenza per sè e per il suo dolore.
L'inquietudine di questa figura femminile si riflette anche sulla vita di Betto, sempre alla ricerca di una "città-casa": dopo un'adolescenza trascorsa a Palmanova, lo troviamo a Bologna, dove si laurea. Poi per un periodo a Milano, in cerca di fortuna editioriale. Poi ancora Roma, e ancora Trieste e, da ultimo,Treviso dove forse aveva trovato il posto in cui vivere.
GLI ANNI DI FABBRICA
Del resto negli ultimi anni, Betto si era dedicato con passione al suo lavoro come copy editor per Fabrica, partecipando attivamente con scritti o curando vari progetti di cui l'ultimo viene pubblicato nel 2007, con Skira. Si tratta de Il secolo veloce", che nasce dal laboratorio editoriale di Fabrica", una serie di interviste a personaggi famosi incentrate sul Novecento. Un libro voluto da Fabrica per cercare di capire, attraverso un compendio di interviste ad alcuni dei protagonisti della seconda metà del '900, quanto la storia, la cultura, la politica, le arti e le scienze hanno prodotto nel secolo scorso.
Un libro che vuole essere un omaggio a quello che senza ripensamenti si evoca, in tutta la storia dell'uomo, come l'epoca più densamente affollata di eventi capitali, in cui questi eventi si sono avvicendati con un ritmo, appunto, veloce quanto mai era accaduto prima. L'idea è stata sin dall'inizio quella di raccogliere le voci in presa diretta di questo variegato gruppo di personaggi ed è nata da una considerazione contingente: forse era giusto che proprio da una realtà come Fabrica, proiettata verso il futuro, nascesse l'esigenza di volgere lo sguardo verso il passato, nella consapevolezza che la Storia si nutre di altre storie. Esperienze come la Seconda Guerra Mondiale, la lotta partigiana per la resistenza, il Concilio Vaticano II, le avanguardie artistiche e letterarie come la Pop Art, il Gruppo '63, l'astrattismo, l'arte Povera e quella concettuale, la Scuola di Piazza del Popolo, il terrorismo degli anni di piombo, le lotte sindacali, l'affermazione debordante della televisione e delle nuove tecnologie, l'informatica e Internet, i progressi della medicina, della fisica e dell'ingegneria genetica, la musica delle canzonette, della sperimentazione e della tradizione popolare, le grandi voci della poesia, l'architettura e il design, l'agonismo sportivo e il cinema dei ruggenti anni '60, della Commedia all'Italiana e dell'Hollywood sul Tevere, l'editoria, il grande giornalismo e molto altro ancora: sono solo alcuni dei piani di realtà su cui si sono giocate le grandi rivoluzioni di un secolo denso e veloce come nessun altro. Tra le 28 persone intervistate troviamo da Ettore Sottsass, architetto e designer ad Arnoldo Foà, dal critico d'arte Achille Bonito Oliva, a Inge Feltrinelli,dalla figlia di Ezra Pound, Mary Pound de Rachewiltz, ad Angelo Guglielmi, dal filosofo e poeta Manlio Sgalambro alla collezionista d'arte Graziella Lonardi Buontempo.
Parlando dei suoi primi racconti aveva raccontato il senso del suo viaggiare inquieto: Nel libro si parla di un altro tipo di prigionia che nasce più dal desiderio di fuga. E' una prigionia innanzitutto sentimentale, anche se poi può essere materiale, come avviene in un racconto: una specie di cementificazione, cioè un uomo che si fa blocco, che si fa pietra, in senso non certo surrealista. Nel libro è più evidente quella prigionia che riguarda i sentimenti, il sentirsi da una parte desiderosi di appartenere a qualcosa o a qualcuno e un istinto di salvaguardia che è un po' il cercare la dimensione del volo. In Mar dei coralli di Patti Smith il passaggio di questo famosissimo fotografo che è Robert Mapplethorpe è simboleggiato da un viaggio su una nave che va verso delle isole lontane e quindi torna il viaggio come volontà di uscita, di liberazione. E' un desiderio molto contrastante, contraddittorio.
Certi giorni sono peggiori di altri giorni
diAde Zeno
Ho una memoria guasta, sbagliata. Chi a suo tempo si è occupato di confezionare la scatola nera del mio cervello deve aver dimenticato – per noia, per distrazione, o addirittura (ma è solo un malizioso sospetto) per scherzo, qualche passaggio essenziale, qualche rotella indispensabile perché il meccanismo funzionasse a dovere. Il risultato ultimo ha qualcosa di grottesco, che si presta con prepotenza alla materializzazione di lacune più o meno insormontabili contro le quali affronto ogni giorno battaglie irreali, faticose, ai limiti del ridicolo. Per scongiurare il rischio di inciampare in pericolose gaffes, ritardi maldestri, e imperdonabili equivoci posso solo fare affidamento su appunti, note a margine dell'agendina, soprattutto su un intricato sistema di simbologie laterali selezionate di volta in volta cui spetta il recupero dei momenti degni di essere rievocati per un motivo o per un altro. Non troppo menomata sul breve periodo, la mia facoltà di imprigionare dettagli a lungo raggio si fa via via più debole, inconsistente, e obbedisce a leggi tutte sue, completamente svincolate da logiche razionali. Se penso al 1998, per esempio, non saprei assolutamente dire così su due piedi come fosse la mia vita di allora: di certo andavo al liceo (sbirciatina all'annuario scolastico), di sicuro non avevo ancora facoltà di guidare un'automobile (rapida occhiata alla data sulla patente: 2000), e probabilmente frequentavo una ragazza di nome Hanna Ruth; l'unica cosa che riaffiora con limpidezza è che fu quello l'anno in cui mi imbattei per la prima volta nella scrittura di Pier Vittorio Tondelli. Non ricordo affatto quali fossero stati i percorsi che mi trascinarono alla scoperta, forse il consiglio di amici, o un articolo, una citazione, un'incursione randagia tra gli scaffali della libreria sotto casa. Però ricordo, molto distintamente, le pagine di Altri libertini bevute in pochi respiri durante la lunghissima sosta notturna sui gradini del conservatorio di via Bidone, nonché lo sbalorditivo senso di meraviglia provato al cospetto di quelle frasi piene di brividi ritmici, di suono, di freschezza, ma allo stesso tempo attraversate da una lancinata malinconia nostalgica che percepii subito come irrimediabilmente mia. Allora non leggevo quasi nulla, le mie parentele letterarie si limitavano a ben poca cosa, non esisteva ancora Vonnegut, non avevo idea di chi fossero Bernhard, Fante, Borges, Parise, Testori, Dagerman, Cortázar, perfino Kafka e Poe erano poco più che ombre sbiadite, Beckett una larva astratta, Céline un nome da donna, e Nabokov il più fidato collaboratore di Kubrick, tanto per citare i primi mostri che mi vengono in mente, vale a dire quelli che poco tempo dopo avrei iniziato a mangiare e a derubare con rabbiosa felicità. Tondelli è dunque stato il primo in assoluto, e non starò qui a spiegare per filo e per segno le ragioni che negli anni successivi fecero sì che la mia scrittura (il mio modo di affrontarla, di architettare immaginari) si allontanasse gradualmente dalla sua, per approdare altrove. Quello che conta è il legame affettivo profondissimo che ancora oggi mi unisce alla voce di Pier (non solo alla matrice libertina, ma anche a quella di Rimini, di Camere separate, forse soprattutto al raccolto e minimale soffio dei Biglietti agli amici che imparai ad amare follemente molto presto). Un legame, insomma, che mi porto dietro, dentro, e che oggi guardo con occhi felici. Ma c'è un altro libro che sono certo di aver incontrato nel 1998, e si tratta di Certi giorni sono migliori di altri giorni. Lo aveva scritto, appena due anni prima, un trentenne goriziano, Filippo Betto, di cui – per via della spasmodica ricerca di "cose tondelliane" che a questo punto mi infettava come una specie di virus – avevo letto un intervento sul nono volume di Panta dedicato appunto a Pier, nel primo anniversario dalla scomparsa. Era un articolo tenero, affettuoso, che raccontava del viaggio intrapreso dai due in Austria per visitare le tombe di Wystan Auden e Ingeborg Bachmann, un ritratto intimo in cui si dipingeva non l'artista, lo scrittore, l'infaticabile animatore di imprese culturali che avevano indelebilmente segnato (in certi casi creato) una generazione di penne scriventi, ma l'uomo solitario e dinoccolato che amava viaggiare, ballare a perdifiato, scoprire mondi, sconvolgere le geometrie delle stanze d'albergo modificando la disposizione dei mobili per regalarsi una tana più personale, più familiare, alla continua ricerca di un luogo piacevole in cui trovarsi e stare. Tra la minima miriade di scatti raccolti in quel volume di testimonianze, quello di Betto mi era sembrato (e, rileggendolo oggi, mi sembra ancora adesso) il più sincero, il più dolce, di certo il meno viziato dallo spirito (auto)celebrativo che in molti casi trapelava tra le righe di altri più illustri colleghi. Sensazione che me lo rese subito simpatico, convincendomi a cercare il suo unico libro, un volumetto edito da Marcos y Marcos nel luglio del 1996, con una copertina blu molto brutta, compensata però da un'invitante quarta di Fulvio Panzeri.
A distanza di oltre un decennio, durante insperate e sempre rimandate operazioni di riordino della mia libreria, è finalmente saltato fuori dal buio questo piccolo libro, che insieme a una quantità vergognosa di suoi coinquilini era stato dimenticato nell'ombra, ed è bastato questo per far sussultare la curiosità di risfogliarlo, di cercare ulteriori tracce del suo autore, che nel frattempo chissà dov'era e come (se) aveva continuato a scrivere. Nei giorni seguenti ricerche non difficoltose mi avrebbero portato a scoprire che Certi giorni era fuori catalogo da molto tempo, così come risultava introvabile anche il titolo successivo (di cui ignoravo l'esistenza), Convulsioni, stampato da Bompiani nel 2000, ma appunto già dissolto nel dimenticatoio delle bancarelle. Altrettanto semplici scavi mi avrebbero poi fatto trovare un recapito dello stesso Betto, a cui scrissi subito presentandomi come suo lettore di vecchia data. Ne seguirono alcune brevi e piacevoli conversazioni scritte in cui lui tra l'altro manifestava stupore per questa sorprendente riemersione di storie, racconti ormai lontani nel tempo e nello spazio, e destinati a non essere ricordati perché, disse, nel nostro paese i libri invecchiano presto. Chiusi il nostro ultimo scambio di parole con la promessa di recuperare in qualche modo Convulsioni e di riparlarne con lui una volta letto.
Oggi vivo col grande rimpianto di non avere fatto in tempo. Filippo Betto è morto dieci giorni fa, colto da infarto mentre era solo in casa, seduto alla sua scrivania. L'ho scoperto in ritardo, non ne ha parlato quasi nessuno, la sua scomparsa improvvisa è passata in silenzio. Aveva quarantatré anni.
"Se uno muore non importa a nessuno purché sia sconosciuto e lontano" recita Montale in Satura. Filippo per me era uno sconosciuto – non ho mai sentito la sua voce, non l'ho mai guardato negli occhi – e il suo corpo ora riposa a centinaia di chilometri da qui, nel cimitero di Palmanova, un paesino in provincia di Udine. Eppure era un mio amico in potenza, e lo è stato fin dal primo momento in cui, dieci anni fa, mi sono imbattuto nella sua scrittura. Ho deciso, allora, di celebrare questa nostra conoscenza interrotta dedicandomi alla rilettura di quel libro smarrito e lontano, uscito fuori per caso dai miei scaffali. L'ho fatto ieri, sdraiato sul letto, facendo qualche pausa solo per riempire il bicchiere di succo all'ananas e per svuotare il posacenere. Ma vorrei tanto che anche altre persone decidessero di farlo, che recuperassero in qualche modo quel libriccino di racconti e che lo visitassero da cima a fondo gustando piano le sette brevi storie che nasconde nella pancia. Lo vorrei perché trovo spaventoso che un libro del genere possa svanire insieme al corpo di chi lo ha concepito. E lo vorrei perché credo si tratti di un libro bellissimo, che vale la pena di ricordare.
Sono storie notturne, fuggiasche, a tratti violente, fatte di luoghi emotivi e monologhi lunari, spaesati, in cui si passa rapidamente dalla cattiveria spietata di un uomo che mura vivo il giovane amante, alla tenerezza più disarmata di un ragazzo distrutto dall'abbandono, per poi arrivare alle tinte fosche di personaggi inquietanti e sospesi, come nel caso della misteriosa donna greca che cerca di convincere una sconosciuta a rinchiudersi con lei e il figlio invalido in una casa senza tempo. Ci sono monologhi lunghi e acquosi, dialoghi brevi e intensi, ci sono sillabe smozzicate fra i denti e stanze abitate da spettri segreti. Soprattutto c'è una voce, uno stile a volte morbido ed elegante, a volte feroce, rabbioso, affilato come una spada invisibile. Insomma vorrei proporvi l'avventura di abbracciarlo, questo libro. E subito dopo di scoprire insieme a me quell'altro titolo in cui non ho ancora avuto modo di viaggiare, ma che a quanto mi dicono, benché con imperdonabile ritardo, arriverà presto dalle mie parti.
Pubblicato da T. Scarpa il 16-04-09
il richiamo della foresta
tratto da www.ilprimoanore.com
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